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TEATRO

Il teatro è non una ma 10, 100, 1000 maschere da esplorare
e in ciascuna di esse trovare un frammento di sé

Veduta di attrice attraverso il mirino

IO SONO HIROSHIMA

Una telefonata, due amiche che, pur lontane, sentono ancora fortemente il loro legame.

La notizia della grave malattia di una delle due apre uno scenario inaspettato che destabilizza equilibri precari.

Le protagoniste di quest’opera teatrale hanno lo stesso nome, come in un gioco di specchi: Anna A si è sposata da poco e aspetta un bambino. Anna B è un'attrice molto nota; torna nel suo paese d’origine come un animale ferito in cerca non solo di conforto ma anche, e soprattutto, in cerca di una chiarezza che dia significato alla sua vita.

Fra le due c’è la gelosia di Michele, marito di Anna A uomo non più giovanissimo.

Questi, pur essendo poco incline all’introspezione, nel momento culminante della crisi di coppia, saprà guardare nel cuore della moglie e nel proprio, in cerca di una verità scomoda ma autentica, una verità in grado di dare il giusto nome alle cose e il giusto peso alle ombre.

E ancora l’amica di Anna A che parla il linguaggio della ragione e del buon senso e il personaggio archetipico dell’Androgino in assoluto ed emblematico silenzio.

La trama di questo atto unico si snoda attraverso una progressiva immersione nell’ombra di ogni singolo personaggio svelando un peccato originale, un destino deragliato dalla paura.

Dialoghi e poesia si intrecciano in cerca di un ritmo che vibri nella testa del lettore e dello spettatore quasi come una sinfonia.


La poesia utilizza il simbolo e la metafora, e questi strumenti linguistici parlano all’inconscio molto più della parola razionalmente corretta.


Quanta parte di noi seppelliamo nell’inconscio? E quanto può essere violenta e destrutturante quella negazione?


Queste sono le domande che il lettore/spettatore può porsi con “Io sono Hiroshima”

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UN GIORNO UDIMMO IL FUMO

“Un giorno udimmo il fumo.” La metafora sinestetica, utilizzata come titolo di questo testo teatrale, vorrebbe riassumere l’immane densità del dolore del popolo ebreo nei campi di concentramento.

La storia si snoda in due tempi e luoghi diversi. Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, una decina di bambini ebrei trova rifugio in uno scantinato, aiutati da una compagna di scuola appartenente a una insospettabile famiglia tedesca.

Parallelamente altri bambini di razza ariana danno voce ad alcune dinamiche conflittuali, conseguenza inevitabile delle leggi razziali dell’epoca.

Questo, in sintesi, l’argomento dell’opera.

Il progetto, finanziato dalla Comunità Europea, ha previsto anche un laboratorio teatrale finalizzato ad avvicinare i giovani partecipanti (dai 10 ai 13 anni) alla terribile storia dell’Olocausto e ad elaborarne le emozioni.

Difficile entrare, anche solo con la fantasia, nella condizione claustrofobica di bambini chiusi in spazi angusti, per un tempo ipotetico e col terrore di essere scoperti. Infatti il mio proposito iniziale era quello di far scrivere il testo ai partecipanti del laboratorio, come altre volte in passato, facendo improvvisazioni sul tema.


Certo, leggendo qualcosa di Anna Frank, ascoltando esperienze di alcuni sopravvissuti, o vedendo film sull’argomento, vennero spunti e riflessioni interessanti, ma di elaborati veri e propri pochi: ai ragazzi del laboratorio, riusciva impossibile immedesimarsi nelle condizioni di vita estreme dei bambini ebrei nella Germania nazista.


Così, alla fine, mettendo insieme il poco materiale emerso, decisi di scrivere io il testo.


Fu un’esperienza intensa e di grande impatto emotivo per tutti. Negli anni precedenti avevo condotto parecchi altri laboratori teatrali, ma quello sui bambini ebrei internati a Terezin, rimane tra le mie esperienze teatrali  più importanti.

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IL TESTIMONE

Immaginifico. Penso che questo termine sia utile per definire la tipologia del monologo, carico di immagini e metafore che appaiono tappe di una complessa ricerca interiore.


 “Il testimone” vuole rappresentare il disagio del protagonista che, senza neanche averne consapevolezza, si è adattato a vivere in un mondo –molto vicino a quello attuale- che ha progressivamente soppresso, bandito, la dimensione emotiva ed affettiva dell’individuo.


Il protagonista, cittadino ligio e ben inserito, è testimone di un evento che desta la preoccupazione e l’allarme delle autorità: apparizioni di persone che si scambiano leggerissime carezze. All’inizio il monologo sembra il resoconto distaccato di un uomo che casualmente ha assistito al “fatto”.


Perché questa fugace visione diventa oggetto di tanto allarme? Perché i movimenti lenti e delicati di queste mani evocano emozioni lungamente e ostinatamente soffocate e negate?


Presto le ben strutturate difese del protagonista cedono, non tanto per l’incalzare delle domande del suo interlocutore (fantasma o coscienza?) quanto per l’impossibilità di descrivere l’evento mantenendo il lucido distacco che la società impone.


Il testo vuole essere una riflessione sulla difficoltà dell’individuo di conciliare la necessità di adattarsi a un sistema di vita sempre più competitivo e disumanizzante e il bisogno di sentirsi anche (soprattutto) soggetto ed oggetto d’amore.


La negazione e persino la rimozione emotiva è, a mio avviso, uno dei grandi mali dell’uomo moderno che è sempre più afflitto da una sorta di disaffezione rispetto ai valori più semplici, a beneficio di un modo di vivere e di essere ormai rarefatto e virtuale.

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